domenica 10 luglio 2011

il tavolo.


Si avvicina a passi svelti, si siede in prima fila.

Sembra un professore, la prima cosa che penso guardandolo è che sia un professore.

Noi siamo qui, coi libri sul tavolo, o il tavolo sotto i libri, dipende.

E dentro i libri le parole, i ricordi, solite cose. Intorno a noi amici, conoscenti e sconosciuti, poi un locale che si chiama Volver, e intorno al locale piazza Dante, poi Napoli, poi tanto altro mondo, un po’ visto un po’ sentito.

Siamo qui per un reading, cioè una lettura delle nostre cose. Però a dire reading sembra più importante.

Siamo qui per dire che ci piace esserci. Non è niente di nuovo, certo, ma ogni tanto è bene ribadirlo.

Personalmente se non lo dicessi credo che potrei dimenticarlo. O forse no, pure questo dipende.

Comunque ora c’è anche questo tipo che sta di fronte a noi – cioè a me e al mio amico Antonio – seduto, giacca abbinata ai pantaloni, camicia e cravatta.

Ha una composta scompostezza, un’eleganza aspra, non saprei descriverlo in un altro modo.

Fissa il mio amico Antonio, che ha appena finito di leggere una poesia tratta da Frantumi, la sua prima raccolta.

- Posso intervenire o dovete parlare solo voi?

Pone la domanda con cortesia rude, in un italiano senza particolari inflessioni.

Ricordo di quando da piccolo andavo in chiesa e mi veniva su una voglia pazzesca di fermare il prete per fargli qualche domanda.

E poi dei giorni in cui mi annoiavo a lezione, a scuola o all’università.

E poi di quei convegni idioti, che potevano essere interessantissimi ma restavano comunque idioti.

- Certo che può intervenire.

- Ecco, vorrei sapere… le cose che state leggendo sono scritte da voi o leggete cose di altri?

Guardo i fogli con le poesie inedite che ho in mano e poi la copertina del mio libro, A riprendere le stelle.

Mi passano davanti le persone per cui ho scritto, il contratto, firma paga e vendi, le presentazioni degli ultimi due anni, e gli ultimi due anni perché no, e penso che sì, sono le mie, e che questa sarà l’ultima lettura per molto tempo, che ho voglia di passare oltre.

Rispondiamo che sono tratte dalle nostre raccolte.

- Ecco… ma qual è il fine? C’è un messaggio? Qual è il messaggio?

Vedo i suoi capelli bianchi, la giacca, la cravatta, la camicia, quel modo di fare, ma soprattutto vedo gli occhi. Sì, gli occhi soprattutto.

Antonio resta interdetto e mi domanda cosa ha chiesto.

Glielo dico, poi rispondiamo che sì, c’è un messaggio.

Allora lui mi guarda.

- Ma secondo voi cosa resterà a questa gente? Cosa ricorderanno una volta usciti di qua? Ve lo dico io… niente! Tutto questo non serve a niente, usciranno e lo dimenticheranno!

A questo punto interviene il pubblico, mentre una parte di me pensa che quest’uomo non ha per niente torto.

Un mio amico gli dice che dopo ci sarà il dibattito, che ora ci deve lasciar proseguire.

Penso a Kundera, al suo L’insostenibile leggerezza dell’essere.

Penso a De André, al suo Non al denaro, non all’amore né al cielo.

Penso all’Antologia di Spoon River che mi aspetta sulla scrivania.

Penso a Hesse, a Fante, a Bukowski, a Pirandello, a Nietzsche e a Kant.

Penso che le domande arrivano così, che ti beccano nel fianco che lasci scoperto.

Immaginate di stare poggiati ad un tavolo. Viene un vostro amico e vi chiede “cos’è questo”. Voi rispondete che è un tavolo, è ovvio. Però.

Sì, è un tavolo. Però. Ecco, vi parte un però. Piccolo, dentro, scatta come una molla, un ingranaggio sconosciuto.

E’ come sentire qualcuno che urla da lontano e dover scegliere. Tendere le orecchie o tapparle.

Una volta scelto, una volta che la molla è scattata, se scatta, siete fregati.

Comunque sto andando troppo in là, torniamo al pubblico che interviene.

L’uomo si innervosisce, ci manda a cagare e si alza.

Mi viene da ridere, tanto.

Mi viene da ridere perché mi ha fottuto, perché ci ha tirato addosso la sua voce tagliente e una domanda per la quale non esiste risposta. E noi che proviamo a tagliare e rispondere, a distruggere e ricostruire, noi qui, siamo soltanto dei bambini. Come lui, come tutti.

E allora rido, perché magari la si può chiamare pazzia una cosa del genere, perché FA COMODO chiamarla pazzia.

E invece non è mai così semplice.

Antonio ha ripreso la lettura, mentre io ancora non riesco a trattenermi.

Poi quell’uomo torna indietro.

- Chiedo scusa per il tono, io vi auguro tutto il bene del mondo…

Qualcuno dal pubblico si volta verso di lui chiedendogli di smettere.

- Ah, ma stai zitta che non hai nemmeno la terza elementare… sapete che vi dico? Tanti auguri a voi e alle vostre STRONZATE.

E va via.

Sono così le domande che ti fregano, semplici, ti beccano al fianco che tanto non puoi coprire. Ti spogliano e poi si prendono gioco di te, che cerchi di coprirti alla meno peggio.

Sono la molla che scatta, se scatta, l’ingranaggio di cui il progettista non ricordava nulla.

E’ come stare poggiati ad un tavolo, e a un tratto viene un vostro amico e vi chiede “cos’è questo”.

Potete rispondere che è un tavolo. E avete ragione, lo è, avete perfettamente ragione.

Oppure potete essere sinceri, e dare quella che, forse, è la risposta più vera.

Non lo so.

Nessun commento: